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SPECIAL ISSUE N. 173(3)/2025

09-10-2024

LA CORNICE TEMATICA
Nel divenire delle società capitalistiche le tensioni tra l'esperienza sociale che si costituisce attraverso il lavoro e i processi di istituzionalizzazione di categorie cognitive e normative alla base delle decisioni di rilevanza collettiva che ne riguardano la regolazione, l’allocazione, etc. hanno accompagnato l’evoluzione dei sistemi di protezione sociale e il godimento dei diritti di cittadinanza. I processi di progressiva destrutturazione del lavoro produttivo, così come le conseguenze della profonda frattura tra produzione e riproduzione sociale che caratterizza l’attuale contesto di crisi eco-sistemica interrogano con forza i processi di qualificazione, categorizzazione e quantificazione che contribuiscono a definire cosa è [o meno] classificato come lavoro e chi è classificato [o meno] come lavoratore. Le «basi informative di giudizio in termini di giustizia» (Informational Basis of Judgement of Justice, Sen 1990, 111) ricoprono un ruolo di primo piano nella formazione delle decisioni nello spazio pubblico: determinano ciò che è pertinente e ciò che non lo è, discriminano tra esperienze significative ed esperienze non rilevanti. Questo rende le definizioni dei fenomeni e la standardizzazione dei metodi per la loro rappresentazione una questione che riguarda tanto la tecnica che il potere (Kula, 1986). Sul piano tecnico, fin dagli albori la sociologia riflette sulle implicazioni della riduzione della realtà sociale a forme astratte, specialmente numeriche; nella consapevolezza che l’effettiva portata descrittiva delle rappresentazioni quanti-qualitative di un qualsiasi fenomeno sociale chiama in causa tanto il rapporto tra il fenomeno indagato e gli individui che ne fanno esperienza, quanto le ‘convenzioni di equivalenza’ all’opera. Sul piano del potere, l'astrazione e la misurazione dei fatti sociali sono condizioni necessarie per la loro visibilità pubblica e le implicazioni di tali processi sull’organizzazione sociale riguardano la sfera politica (Salais, 2009, 118; Desrosières 2011).
Il tema assume inedita centralità nell’affermazione dello Stato neoliberale (Desrosières 2010) e più in generale della razionalità neoliberale – con la pervasività del modello del mercato e l’imposizione di obiettivi di performance in ogni settore della vita sociale (Brown, 2015) –, sostenuta da visioni semplicistiche e riduttive della vita economica e dei processi di attribuzione del valore (Mazzucato 2018). Con la progressiva colonizzazione della sfera pubblica da parte di una logica di tipo manageriale (tramite l’imporsi di principi riconducibili al New Public Management) si è operato un ribaltamento di prospettiva in termini di benessere collettivo: la conoscenza della società, e dunque anche dell’organizzazione sociale del lavoro, è sempre più al servizio di una logica prestazionale, nel nome dei principi di rendicontazione e di efficienza dell’operato di organizzazioni e istituzioni, pubbliche e private (Salais, 2010). «Thus, the objectives [of public policies] have to be simplified; they should be limited to a small number of quantifiable indicators whenever possible and the promoters of the legislation in question should be made accountable for the results» (Bruno et al. 2016, 170). Ciò significa che le basi informative dell’azione pubblica in ogni settore sono caratterizzate da un livello di astrazione e formalizzazione che segna distanze sempre più imponderabili tra ciò che si intende rappresentare (e i ‘rappresentati’) e i formati attraverso cui ciò avviene (Fitoussi et al. 2013). Da un lato si evidenzia quindi un declino del pensiero concettuale (Salais, 2013) e il passaggio dalla valutazione qualitativa di uno stato di cose (che si può fare anche con i numeri) all’asservimento a obiettivi quantificati che innesca un processo senza fine di benchmarking e di confronto tra best practices, affidate a innovativi dispositivi tecnologici della conoscenza (Espeland e Sauder, 2008); dall’altro, la riduzione del conoscibile al ‘quantificabile’ (Salais 2013) e al ‘misurabile’ strozza il discorso politico nell’oggettività del tecnicismo e del sapere esperto. Le strategie di produzione di conoscenza sui fenomeni sociali basate sulla creazione di raffigurazioni sempre più astratte e standardizzate dei fenomeni sociali hanno inoltre una forte valenza disciplinante e prescrittiva, retroagendo sul comportamento di cittadini e lavoratori sotto forma di inconfutabili procedure, standard, modelli di certificazione, sistemi di profilazione, la cui esemplificazione è incarnata dagli strumenti di policy (Lascoumes e Le Gales, 2004) utilizzati per mettere in campo interventi di workfare, operando un processo di ‘sovraccarico descrittivo’ di indici e indicatori (Giullari e De Angelis, 2019), che alimenta processi di displacement istituzionale (Streeck & Thelen, 2005), laddove l’azione pubblica ha quale obbiettivo di influire sull’andamento dei vari indici ed indicatori, più che sulle conseguenze sulla vita delle persone di un determinato fenomeno che si vuole incentivare o ridurre (Borghi e Giullari, 2015).

I CONTRIBUTI
L’obiettivo principale della Special issue è quello di affrontare le implicazioni delle dinamiche fin qui sintetizzate su diverse dimensioni. La prima di queste è quella del riconoscimento, sia del lavoro che delle lavoratrici e dei lavoratori, considerando quello di lavoro un concetto multiplo e polisemico (Supiot, 2003; 2020). Il più immediato risultato di definizioni riduzionistiche e standardizzate è infatti l’invisibilità di tutte quelle forme di lavoro svolte in base a forme regolative diverse dallo scambio economico, a prescindere dall’oggetto – bene o servizio che sia – che quelle forme di lavoro producono o riproducono. A partire dalla centralità del lavoro di cura domestico non retribuito, si propone di mettere a fuoco altre forme di lavoro (legate alla cura di prossimità, alla cura del territorio, all’auto-produzione, etc.) caratterizzate dal mancato o scarso riconoscimento che assoggetta segmenti specifici della popolazione, come quella femminile, straniera o semplicemente più povera; laddove l’invisibilità (quali-quantitativa) di queste forme di lavoro nello spazio pubblico finisce per escludere chi le svolge dall’accesso ai diritti sociali che il lavoro dovrebbe garantire. Qualcosa di molto simile avviene con il lavoro informale. Anche quando retribuito, il lavoro svolto del tutto o in parte al di fuori della regolazione vigente finisce per escludere chi lo svolge dai più elementari diritti riconosciuti a chi lavora in modo regolare. Anche in questo caso, l’esclusione riguarda più spesso alcuni gruppi più di altri, concorrendo ad esacerbare le diseguaglianze sociali.
La seconda dimensione è quella della rigida segmentazione che definizioni in uso in ambito amministrativo e nella statistica ‘ufficiale’ comportano. Si tratta di un effetto distorsivo a prima vista sottile, ma che determina esiti anche dirompenti per la vita degli individui. Ad esempio, secondo la definizione standard (cfr. Istat.it), due persone che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento della rilevazione sono considerate allo stesso modo occupate, a prescindere dall’effettivo numero di ore lavorate e dal compenso che da queste è derivato. Tuttavia, nell’attuale contesto regolativo nazionale, l’essere, o meno, occupato implica l’accesso a forme di tutela che potrebbero rendersi necessarie anche quando sussiste lo stato di ‘occupato’. È ad esempio il caso del lavoro povero, i cui profili effettivi restano tutt’oggi sfumati. Troviamo poi situazioni paradossali in cui, pur essendo occupati, in virtù di un accordo o di un contratto in essere, l’effettiva retribuzione è condizionata da circostanze esterne. Anche in questo caso, l’esempio del lavoro di cura offre diversi spunti di riflessione, in particolare con riferimento alle condizioni di chi lavora in alcuni settori di servizi alla persona (es. integrazione socio-educativa, istruzione, etc.) in cui la retribuzione è garantita esclusivamente nel periodo di effettivo funzionamento del servizio (presenza dell’utenza). Ma qualcosa di simile avviene anche nelle forme di lavoro che implicano una retribuzione a cottimo, come lo è ancora oggi per buona parte dei ciclofattorini (rider) o della miriade di lavoratori tramite piattaforma. In questa cornice prendono forma anche le distinzioni o le mancate distinzioni tra chi un lavoro non ce l’ha, ma lo cerca, e chi pur non essendo impegnato in una ricerca ‘attiva’ sarebbe disposto a lavorare.
Un’ultima dimensione che ci sembra opportuno richiamare, inevitabilmente intrecciata alle precedenti, è quella più generale della pervasività dei processi di targeting dei destinatari delle politiche, con specifico riferimento a quelle attive del lavoro. In questo caso l’accento che vorremmo porre è su quei meccanismi che pretendono di agire sui fenomeni sociali a partire dall’intervento sui singoli, identificati come membri o meno di una data categoria (Barrault-Stella and Weill, 2018). Come è noto, le politiche di attivazione di stampo workfaristico ricadono spesso in questo meccanismo, mettendo al centro della propria azione gli individui ‘profilati’ a partire da classificazioni individuate sulla base della codifica di decontestualizzati ‘sintomi’ di disagio; l’identificazione di caratteristiche comportamentali e di situazioni individuali consente così l’individuazione di gruppi sociali interessati da specifici rischi e relativa formulazione di interventi, senza alcuna garanzia di reale soluzione alle singole situazioni. È ciò che si riscontra nel caso delle più recenti evoluzioni delle misure di politica attiva del lavoro (GOL, AdR, etc.), e relativi sistemi di profilazione per l’accesso ai diversi interventi.
Seguendo queste linee di ragionamento, i contributi possono riguardare:
- saggi che mettano al centro le distorsioni prodotte dall’astrazione statistica sul mondo del lavoro, a partire da ricerche, sia quantitative che qualitative sui settori, aree di attività etc. presi ad esempio;
- saggi dal carattere metodologico, tesi a riconsiderare l’utilità degli indicatori esistenti in tema di lavoro e/o a proporne di alternativi o complementari;
- saggi che abbiano quale oggetto le politiche in tema di lavoro, che mettano al centro il rapporto tra basi informative e obiettivi di policy.
Sono tuttavia ben accetti contributi che vogliano andare oltre gli esempi e le tracce proposte, purché mettano al centro la relazione tra forme e tecniche della conoscenza e le loro implicazioni sulla realtà sociale ed economica.


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