In questo articolo analizzo le implicazioni della diffusione della videoconferenza in carcere, una tecnologia che burocratizza il processo penale all’interno del processo di civilizzazione della pena. Questo aspetto viene esaminato attraverso una serie di lettere di detenuti ‘in lotta’ in regime di massima sicurezza in Italia dal 2006 al 2020. Da una prospettiva situata le lettere descrivono la videoconferenza come un modo per disincarnare e ricodificare lo spazio-tempo dei detenuti, riducendoli a un simulacro: una serie di immagini, suoni e sguardi catturati da telecamere e microfoni. Questa tecnologia garantisce, attraverso una soluzione geografica materiale e virtuale, efficienza e sicurezza, ma al contempo aumenta la distanza tra il giudice, la società e l’imputato.