L’autore evidenzia l’ancoraggio del modello psicoanalitico classico al paradigma epistemologico della semplicità lineare, ovvero dell’originarietà. La “semplicità” di un’interpretazione intesa come traduzione univoca del linguaggio inconscio entra inevitabilmente in crisi di fronte al gruppo, realtà che può essere “abbracciata” soltanto attraverso un’epistemologia della complessità. L’autore descrive gli ordini di complessità specificamente esperibili in un setting gruppale (intero/parte, soggetto-osservatore/oggetto-osservato), i quali si intrecciano inscindibilmente con la complessità identificatoria (gruppalità interne). L’interpretazione, nella sua visione, è piuttosto un atto narrativo o costruttivo in cui ciascuno dei partecipanti alla relazione analitica dà significato alla propria esperienza di attraversamento di quella “materia gruppale” di cui egli stesso fa parte. Egli si sofferma quindi sui concetti di formazione e con-formazione per sostenere che una pratica analitica che si muova in un orizzonte narrativo-ermeneutico, privilegiando metodicamente l’esperienza vissuta, si caratterizza necessariamente come una pratica trasformativa delle relazioni presenti nel campo analitico, un processo che implica la messa in crisi per tutti gli interlocutori delle rispettive “formazioni” pietrificate. In questa reciprocità formativa la posizione specifica dell’analista si fonda su una maggiore “capacità negativa” che gli consente di mantenere viva la sua funzione di “supervisore” degli atti interpretativi.